Kontrapunkte

Diese Kolumne steht für Interviews, zum Anhören von Meinungen und zum Vorschlagen von Debatten von musikalischen Themen zur Verfügung, d.h. zur Didaktik, zur sozialen Rolle der Lehrer*innen, zur Unterstützung der Provinz im Bereich der Musik, zur Volksmusik der Alpenraum, und zu anderen Themen von gemeinsamen Interesse.

Die Beitrage werden von Lehrer*innen der Musikschule veröffentlicht, aber auch die Schüler*innen der Musikschule sind eingeladen, ihre Schriften vorzuschlagen. Die Beiträge sollen Mauro Franceschi, dem Herausgeber der Kolumne, an die folgende Adresse geschickt werden: Mauro.Franceschi@provincia.bz.it.

Guglielmo Barblan (Siena 1908 - Milano 1978): un critico per tutte le stagioni. Parte conclusiva.

La critica musicale durante il regime fascista e nell’immediato secondo dopoguerra sulle colonne dei quotidiani "La provincia di Bolzano" e "Alto Adige". Di Giuliano Tonini.

Mario Mascagni
Mario Mascagni

14. “Piacevole è la funzione della critica allorché il giudizio non ha bisogno di contorcimenti di diplomazia letteraria per esprimersi, ma si stende in piana sincerità corrispondendo alla sincerità dell’impressione ricevuta dal contato con la voce dell’artista”: Barblan conferenziere, musicologo, inviato speciale

“Dopo molti anni di silenzio, rotto recentemente solo da sporadiche e brevi conversazioni radiofoniche, il prof. Guglielmo Barblan docente di storia della musica al nostro Conservatorio, accogliendo l’invito del Circolo Unione, ha intrattenuto venerdì scorso [15 giugno 1947] uno stuolo necessariamente ristretto di intellettuali parlando loro di alcune personali esperienze critiche sull’arte e sul pensiero drammatico di Giuseppe Verdi. La parola fluida ed espressiva pervasa di sapere e di commozione del ben noto oratore ha messo in luce alcuni aspetti veramente insospettati del popolare autore di “Traviata”: il Verdi maggiore, il drammaturgo che nella concezione universale dell’eterno dramma dell’amore, del dolore e della redenzione supera financo il musicista sovrano potenziatore di travolgenti impeti melodici, per giungere a scolpire con shakespeariana potenza gli intimi contrasti delle sue creature. In originale e succosa sintesi, il Barblan dopo aver messo in evidenza il significato delle prime 13 opere verdiane, ha fatto sfilare davanti alla fantasia degli ascoltatori le figure di “Rigoletto”, “Azucena”, “Violetta”, “Amneris”, “Otello”, “Jago”, “Desdemona”, “Falstaff”, illuminando ciascuno nella propria magica atmosfera, per concludere indicando l’apporto verdiano anche in campi che trascendono il puro mondo dei suoni.” (Alto Adige, domenica 15 giugno 1947)

Questa attività divulgativa si polarizzò su due figure di musicisti che corrispondevano ai due maggiori interessi musicologici di Barblan in quel periodo: F. A. Bonporti e G. Donizetti.

Nel 1949 cadeva il secondo centenario della morte del compositore trentino Francesco Antonio Bonporti (1672-1749). Barblan, “al quale va il merito di aver per primo rivelato nel mondo critico il valore del compositore trentino e di aver rintracciato ed elaborato per 1a moderna esecuzione le più significative opere bonportiane” (Alto Adige, martedì 5 aprile 1949), fu impegnato in un tour de force di conferenze in tutta Italia e a lui fu affidato l’onore delle celebrazioni ufficiali a Trento: “Guglielmo Barblan ha fatto giustizia, con uno studio di anni, appassionato e metodico, da musicista profondo e critico affinato quale egli è, di tutto quanto erroneamente e semplicisticamente si è detto e scritto in passato sul grande trentino. Nel discorso rievocativo che ha aperto la commemorazione di Trento, il Barblan ha messo in luce con rara chiarezza e persuasività la formazione artistica del Bonporti e la sua personalità musicale. […] Il maestro Antonio Pedrotti ha quindi diretto una sceltissima orchestra ad archi, eseguendo due Concerti con violino obbligato, l'ormai famoso Recitativo dal Concerto in fa e la Cantata Ite molles.” Così Andrea Mascagni dalle colonne dell’Alto Adige di domenica 16 ottobre 1949.

Il Comitato per le celebrazioni del centenario della morte di Gaetano Donizetti (1797-1848) affidò l’incarico a Barblan di redigere una nuova biografia critica del compositore bergamasco che si concretizzò nella pubblicazione dell’ampia monografia «L'opera di Donizetti nell'età romantica» edizione del centenario a cura della Banca Mutua Popolare di Bergamo, 1948. Il volume fu recensito sulle colonne dell’Alto Adige di venerdì 8 luglio 1949 dal musicologo Giulio Cogni (1908-1983): “L'unica cosa che meno ci piace è il suo forse eccessivo insistere sulle rassomiglianze di temi a battute con altri lavori di altri celebri compositori; che ha carattere di poco utile e in sé modesta soddisfazione di giuoco alla cerca. […] Ciò che invece il lettore non musicista non troverà, se non per accenni, in questo lavoro di musicologo, è l'avventura e il romanzo della vita del compositore. Questa non è né una biografia, né tanto meno una vie romancée, quantunque si senta bene che l'autore avrebbe stoffa letteraria per scrivere anche un bel romanzo donizettiano. I tratti biografici sono sbrigati in poche linee: forse troppo poche, per quanto, specialmente verso la fine il tormento dell'anima donizettiana assurge a significato profondamente umano, non forse inutile a comprendere la vita interiore di alcune sue creature, e sempre interessante e appassionante. Ma questo occorre cercarlo in altre biografie. Eppure leggiamo fra i moltissimi, questo passaggio del Barblan, così evocatore del mistero funereo dell'anima di Donizetti: “Nelle note della Lucia, la scena (quella dell'insania di Lucia) suona quasi come il terribile preannunzio d'una tragica pagina autobiografica: allorché fra non molti anni nella mente sconvolta del Maestro l'unico accenno capace di rilevare un embrione di vita e un collegamento col passato, sarà appunto uno smozzicato echeggiamento a fratture melodiche. Ma ove si voglia distaccarsi dal richiamo di una autobiografica predestinazione, ascoltiamo nella magia di quei misteriosi appelli l'eco di una melanconia che è in noi nel mondo… Clima notturno, passaggio notturno: un castello sullo sfondo, tombe in primo piano. Cosa avrebbe potuto desiderare di più appropriatamente romantico la fantasia di Hofmann? Risuonano le doglianze dei corni, lo strumento evocatore per eccellenza di scene lunari, che rispondono ai maestosi accordi dell'orchestra nel preludio dell'ultima scena.”

Barblan, in qualità di inviato speciale de La provincia di Bolzano e poi dell’Alto Adige, inviò numerose corrispondenze dai principali festival musicali nazionali e internazionali (Festival di musica contemporanea di Venezia, Arena di Verona, Festival di Bayreuth, La Scala di Milano) recensendo importanti partiture novecentesche, alcune in prima assoluta.

In una di queste corrispondenze ‘fotografa’ questa simpatica istantanea di un critico musicale alle prese con un’opera nuova: “non gli è concesso di smarrirsi nei propri dedali di un nirvana qualsiasi ma è obbligato ad accelerare il pulsare delle proprie meningi per poter intendere più in fondo possibile un dramma, una sinfonia, un brano cameristico di cui spesso non ha neppure sentito parlare e del quale è giocoforza doverne scrivere in tutta fretta e nel modo meno indecoroso. (Alto Adige, “La prima opera nuova al festival di Venezia. Lulu di Alban Berg”, martedì 6 settembre 1949)

“Delusione profonda ha accolto l'apparire della pagina di Schoenberg [Concerto per violino e orchestra op. 36 del 1936], il tenace condottiero di quel linguaggio dodecafonico di cui ormai si parla con disinvoltura anche nei circoli intellettuali meno quotati, tale è lo scalpore che quel movimento musicale viennese ha provocato attorno a sé da alcuni decenni. Schoenberg è l’uomo che a un certo momento proclamò essere finito nella storia della scrittura musicale, il tradizionale sistema tonale e proclamò il libero uso dei dodici suoni della scala, legati però fra di loro da ferree leggi di corsi e ricorsi geometrici: anarchia e disciplina inesorabile al tempo stesso dunque, come frequente nella evoluzione culturale germanica. Accadde a Schoenberg la singolare ventura di imbattersi in un allievo di gran talento, Alban Berg, il quale, mercé le opere dettate dalla propria genialità, avvalorò in ogni parte il sistema: e Schoenberg assurse ai fastigi di aedo e protomartire del movimento. Stasera in verità ci siamo accorti che i veri martiri sono stati gli esecutori e il pubblico nei confronti dell'atteso concerto: l’orchestra di radio Roma è stata infatti al di sopra di qualsiasi elogio nel tener testa ad una musica tutta fratture e disfacimento, mentre il violinista Arrigo Pelliccia, che sosteneva la responsabilità del solista, ha dato prova di strumentista ammirevole nel superare gli ostacoli delle più bislacche e impensate difficoltà. Schoenberg è apparso a questa prova del fuoco, a distanza di oltre 30 anni dalle prime sue esperienze dodecafoniche e senza più il velame del cantore incompreso, per quello che in realtà egli è: un sapientissimo e pedante conoscitore di ogni tecnica musicale che, impotente ad una efficace espressione, ha tentato di cancellare tale impotenza mercé la creazione di un nuovo sistema teorico da lui scrupolosamente osservato. Ora se di questa trovata tecnica la storia indubbiamente dovrà rendergli atto, non è a dire che un sistema possa costituire la panacea per una espressione qualsiasi, e tanto meno possa far scaturire miracolosamente la genialità laddove di essa non vi sia traccia. Per questo il lungo e stanco concerto per violino si stiracchia disperatamente fra rimasticamenti di un cromatismo wagneriano-frankiano, nel rigore di una apparente logica strutturale, alla costante ricerca di una espressione che inesorabilmente sfugge.” (Alto Adige, “Il Festival della musica a Venezia. Pubblico paziente ed esecutori valorosi per il lungo stanco “concerto per violino” di Schoenberg”, martedì 7 settembre 1948)

“[…] ma per quello che riguarda la musica non è difficile scorgere che l'orientamento del [Alban] Berg, come del resto quello del suo maestro, lo Schoenberg, nasce proprio dall'ultima decomposizione di una putrefatta sensibilità romantica; e basterebbe a confermarlo gli alcuni cenni del wagneriano «Tristano» che si sprigionano dalle meticolose combinazioni strumentali nei rari momenti in cui il compositore è in vena di lirismo. Fatta questa premessa mi guarderò bene dall'offrire su questo lavoro sconcertante ed eroico, almeno come documento, un qualsiasi accenno di spirito a buon mercato, che sarebbe troppo facile; e neppure mi indugerò a ripetere come il Berg, che nella sua prima opera, il «Wozzeck», aveva agito per gran parte sotto l'impulso della sua tempra di musicista geniale e non del tutto in concomitanza con i paradigmi della scuola viennese della dodecafonia, abbia invece qui voluto procedere nel più profondo ossequio a quei principii, mortificando sé stesso sull'altare del sistema. Né io saprei riferire se le molte parti sterili che collegano alcuni momenti di salda violenza che potremmo anche chiamare drammatica, sebbene di dramma sia ben arduo parlare mancando alla lordura degli episodi la vita dei contrasti ed in quanto tutto è qui monotona sozzura, siano imputabili alla costrizione di una dottrina intransigente (però tutte le dottrine sono intransigenti anche quelle di Palestrina e Bach), o non piuttosto ad uno sciagurato squilibrio delle facoltà creatrici di un artista di alto ingegno, di formidabile scrupolo e di fanatica onestà. Un fatto è certo; che il mantenersi su di un binario troppo ossequiente ad una scrittura che sfocia nella spietata impersonalità e dunque nella anonimia palese, in sede espressiva induce alla noia: la noia smisurata e terribile. Ancor più terribile per chi sa valutare a fondo il lavoro estenuante di un ingegno musicale certo fra i maggiori della nostra epoca. Una fatica gigantesca per un risultato assai problematico; che però era doveroso conoscere e che, anche archiviato, resta sempre documento da non dimenticare. Opera difficilissima […] Sul calare del sipario, alla fine del secondo atto, accolto come il primo da affettuosi convenevoli battimani, un signore piuttosto anziano annegato anch'esso nel velluto della poltrona mi ha chiesto: «E Lulu non muore?»; e nei suoi occhi balenava un sinistro raggio alimentato certo dalla allucinante morbosità della femmina che secondo lui, non poteva rimanere impunita. Il suo era uno sguardo «espressionista». «Non muore, signore, mentre si accingeva a farla morire sventrata in una soffitta di Parigi, il povero Berg è morto prima lui sebbene appena cinquantenne, una quindicina di anni fa; questa impudica astrazione femminile doveva certo esercitare strani influssi». «Ah . . . così? Poverino . . . », e il signore si è alzato un po' a stento facendosi vento col programma, pensando forse alla sorte dell'eroico musicista vittima, come tanti scienziati, di un «virus» da lui tanto amorevolmente allevato. E il suo sguardo da allucinato che era, si fece dolce e melanconico. Uno sguardo umano”. (Alto Adige, “La prima opera nuova al festival di Venezia. Lulu di Alban Berg”, martedì 6 settembre 1949)

“Che io mi affrettassi a scrivere le due colonne obbligatorie all'indomani della prima mondiale dell'ultima opera di Igor Strawinsky «The Rake's Progress », ovverosia «La carriera di un libertino» secondo la traduzione preferita dall'autore, era del tutto superfluo; dell'opera attesissima e festeggiatissima avevo infatti trattato ampiamente mesi prima aggiornando il volume che sul musicista russo scrisse, anni or sono, il compianto Alfredo Casella ; e confrontando quello che mi aveva suggerito l'attenta meditazione della partitura con quello che mi suggeriva la diretta esecuzione del lavoro, mi accorsi che non avrei fatto altro che ripetermi. La chiarezza del pensiero e della volontà strawinskiane è talmente evidente, che quando si passa dalla lettura pianistica alla esecuzione teatrale sorprese non ce ne sono, se non una, cioè quella di ascoltare potenziati i valori espressivi già avvertiti in precedenza. […] Sul valore del libretto, dovuto alla penna di un vero ed eletto poeta quale W. H. Auden ed alla esperienza scenica dell'americano C. Kallmann, si è sorvolato con un eccessiva noncuranza, forse la ristrettezza del tempo ha impedito alla nostra critica di approfondire il testo inglese nei suoi valori poetici e nel suo significato morale; presi com'erano dalla necessità di riversare ogni attenzione sul fatto musicale, quasi tutti hanno sottovalutato la bellezza della favola ed i pregi di un testo dove i sentimenti umani più nobili trovano accenti soavi e nostalgici, e dove i caratteri buffi dopo esser stati trattati con agilità piccante trovano quasi sempre la battuta che innalza quei personaggi a figure tragiche. […] Ora anche nell'ultima opera il compositore non si trae indietro quando una determinata effusione musicale gli suggerisce una reminiscenza famosa: la bellissima aria di Anna nell'ultimo quadro del primo atto, ad esempio, sboccia sulla medesima scala ascendente dell’«Ah, non credea mirarti!» di Sonnambula ; però alla seconda battuta Bellini è già dimenticato e si scopre che la personalità di Strawinsky si è impossessata di quello spunto solo per dar vita ad una nuova originalissima pagina. Tutto ciò nasce da un profondo senso della tradizione su cui opera la creazione di una fervida genialità; sì che questo apparir di reminiscenze che in altro autore suonerebbero come intollerabili pecche, costituiscono uno dei più valida pregi della partitura di Rake’s Progress. Dopo ciò si arguisce come in Strawinski sia arrischiato parlar della scoperta di un nuovo linguaggio, ma piuttosto sia da ricercare la sua originalità nella proteiforme abilità di deformazione di un linguaggio tradizionale: a un dipresso quello che Picasso ha compiuto nel campo della pittura. […] È però da sospettare che questo ammirevole Proteo musicale sia ancor lungi dall'aver compiuto il suo cammino e dall'aver cristallizzato l'invidiabile suo mito. The Strawinsky's Progress è forse l'opera che tiene in serbo le più impensate diavolerie.” (Alto Adige, “Stravinskij e la sua opera al Festival di Venezia”, 18 settembre 1951)

15. Congedo
Nell’autunno del 1950 Barblan si trasferì a Milano per assumere la Direzione della Biblioteca del Conservatorio “G. Verdi”. La moglie, la pianista Marcella Chesi, lo raggiunse nel febbraio del 1951.

Ma prima di congedarci dal Barblan ‘bolzanino’ vogliamo menzionare un altro suo contributo musicologico che si inserisce in quel filone di ricerche storiche volte a valorizzare e a sottolineare l'importanza dell'apporto della cultura musicale italiana in terra atesina, avviato ancora negli Anni venti da alcuni articoli pubblicati da Luigi Onestinghel (1880-1919) nell’«Archivio per l'Alto Adige» seguiti dai contributi di Vittorio Zippel (1860-1937) e da quelli più consistenti e determinanti di Guido Canali (1904-1988, direttore dell’Archivio di Stato di Bolzano dal 1933 al 1949) e di Guglielmo Barblan.

Nel suo breve articolo “La musica e la fiera di Bolzano” (in: Fiera di Bolzano — Bozner Messe, numero unico, settembre 1949) Barblan ricostruisce la festa musicale organizzata la sera del 19 settembre 1760 dal Magistrato Mercantile in onore della coppia reale di passaggio in città, immortalata da una incisione su rame di G.A. Wolfgang di Augusta nel 1761 dove s’intravvede un’orchestra: "Si trattava della Cappella del Duomo sotto la guida del violinista Kurzweil: o, in caso contrario, donde venivano si eleganti e certo esperti strumentisti? Quale musica nella settembrina notte stellata echeggiava nella festosa intimità di via Argentieri? Era forse la cappella parmense che si era spostata al seguito dell’infanta Isabella con qualche composizione del Traetta? I documenti non parlano in proposito; ma il nome di Traetta riappare ben chiaro a Bolzano cinque anni più tardi". E di questo successivo episodio, la commissione da parte del Magistrato Mercantile di Bolzano della Cantata La pace di Mercurio ad uno dei maggiori compositori italiani del tempo, Tommaso Traetta (1727-1779), per onorare il passaggio in città della coppia reale previsto nell’agosto del 1765, Barblan si occupò diffusamente nel suo saggio pubblicato in due puntate da Atesia Augusta. Rassegna mensile dell’Alto Adige, nn. 9-10, 1941 (Barblan vi teneva fin dalla sua fondazione nel 1939 la rubrica mensile “Vita Artistica Atesina. Cronache del teatro e della Musica”, recensioni di mostre, di libri, reportage e altri articoli occasionali): “Una cantata inedita di Tommaso Traetta scritta per la Bolzano del Settecento” poi pubblicata anche sulla Rivista Musicale Italiana, (1943) n. 1-2: un contributo pioniere della storiografia del teatro musicale bolzanino.
Giuliano Tonini